Campegine 1 gennaio 1869: i tumulti del macinato
Sul finire del primo decennio dell’Italia post-unitaria, le classi mezzadrili e bracciantili delle campagne vivevano una condizione economica e sociale al limite della sopravvivenza. Ciò nonostante, il Governo, per far fronte alle gravi difficoltà di bilancio, nel 1868, approvò una legge che istituiva, con decorrenza dal 1 gennaio 1869, un’imposta sul macinato: di L. 2 ogni quintale di grano, L. 1 per ogni quintale di granoturco o segale, L. 1,20 per l’avena e L. 0,50 per i legumi secchi e castagne, imponendo ai mugnai la riscossione del tributo.
Malgrado le assicurazioni del Governo, la tassa, insopportabile ed odiosa, affamava sempre più le classi più povere. Le ripercussioni sociali furono immediate. Scoppiarono tumulti in molte località d’Italia e in particolare in Emilia dove, oltre a numerosi feriti, trovarono la morte 34 contadini.
Nonostante le lotte del risorgimento fossero da poco sopite, anche a Campegine, mezzadri e braccianti vegetavano in una quasi totale ignoranza e nel più basso servilismo, come ai tempi del Ducato di Modena, caduto da una decina d’anni. Lo stesso credo cattolico cui i contadini erano devoti, si fondava su forme caritatevoli, ben lontane dal prefigurare un qualsiasi riscatto sociale. La benevolenza dei padroni era l’unico appiglio su cui potevano contare i contadini poveri, dato che il potere costituito non curava i loro interessi, ma quelli delle classi dominanti, cioè i proprietari terrieri, ricordandosi della gente dei campi, solo quando c’era da mandarla in guerra.
La contrapposizione tra queste due classi sociali si acuì ancor più in Emilia, dove la penetrazione delle nuove dinamiche economiche del capitalismo aveva già iniziato a disarticolare l’antico sistema di conduzione delle campagne, compromettendo quelle poche certezze che pure assicuravano la sussistenza di quei ceti meno abbienti.
È in questa situazione sociale che, a Campegine, il primo gennaio 1869, prese corpo la furiosa rivolta contro le autorità comunali che intendevano applicare l’iniqua tassa sul macinato, tutelando, da qualche giorno, la sicurezza del mulino Gherardini, a pochi passi dalla casa comunale, con un presidio di dieci granatieri.
Fu proprio nelle prime ore di quel mattino di festa che un consistente attruppamento di persone della classe povera accorse davanti al palazzo del municipio, protestando con forza contro l’imposta sulla farina. Invitate a desistere, reagirono con maggior vigore, occupando i locali del mulino, fino a costringere il presidio dei granatieri, dopo averli colpiti con sassi, ad asserragliarsi nel palazzo comunale, per ben tre ore.
Quando arrivò da Reggio Emilia, ove risiedeva, il sindaco di Campegine (1866-1871) Domenico Sidoli, patriota reggiano del Risorgimento, il capopopolo dei rivoltosi, tale Luigi Cabassi, ex sergente dei Dragoni Estensi, secondo quanto riferito dallo stesso Sidoli, con atteggiamento intimidatorio, reclamò la resa e la rimozione di quel presidio militare. Il Sindaco allora si affacciò al balcone del municipio e, in nome della legge, esortò i rivoltosi a tornare pacificamente alle loro dimore. Ciò inasprì ancor più l’animo della gente: piovvero sassi e i rivoltosi tentarono di sfondare il portone del municipio a colpi di palo. I carabinieri di stanza a Castelnovo Sotto, che avevano assistito ai fatti, ritennero opportuno chiedere un rinforzo militare a quel comune.
Quando, verso mezzogiorno, un nuovo drappello di granatieri raggiunse Campegine, la situazione precipitò e le milizie apersero il fuoco sulla folla. Oltre a numerosi feriti, trovarono la morte, assieme al Cabassi, altri cinque contadini.
Intanto, l’autorità di Pubblica Sicurezza, giunta sul luogo con nuovi rinforzi, arrestò 29 persone che avevano partecipato ai tumulti. Nei due giorni successivi, in seguito a questo sanguinoso episodio, perirono altre due persone, in tutto otto, come dettagliatamente riportato nel registro mortuario della Parrocchia di Campegine, redatto dal parroco del tempo don Matteo Romani.
I corpi furono sepolti nel locale cimitero in una fossa comune e la loro memoria cadde in un lungo oblio. Diversi mesi di carcere furono inflitti a coloro che, come Agostino Cervi, padre di Alcide Cervi, parteciparono alla rivolta.
Trascorsero cento anni, prima che la memoria di quei caduti riemergesse. Fu proprio Campegine, con il Comune di Reggio Emilia, a costituire il comitato in rappresentanza dei contadini reggiani, per ricordare quel significativo passaggio storico. In anni più recenti, l’Amministrazione Comunale intitolò la piazza antistante al Municipio, ai Caduti del Macinato. Nel 2002, in ricordo delle vittime di quel primo cruento tentativo di riscatto sociale, nella medesima piazza, fu innalzato un monumento a stele, sulla cui sommità è posta una macina, dalla quale cola il sangue versato dai contadini campeginesi. Il manufatto, in pietra di Vicenza e marmo rosso di Verona, è stato ideato dal maestro Alfonso Borghi e progettato dall’architetto Gabriele Mattioli.
La relazione del sindaco Domenico Sidoli sulla rivolta di Campegine è contenuta nel documento sui fatti avvenuti nelle provincie dell’Emilia, in conseguenza della legge sul macinato, presentato alla Camera dei Deputati, il 20 gennaio 1869, dal Ministro dell’Interno Girolamo Cantelli. I fatti rispecchiano la prima grande crisi sociale del nuovo Governo italiano, alla quale, tra l’altro, non fu estraneo un sentimento di avversione nei confronti dello Stato unitario da parte della gente dei campi, che contribuì ad accentuare la repressione delle rivolte, come nel caso di Campegine, il più grave e rilevante a livello nazionale.
Di seguito, l’estratto del registro mortuario della Parrocchia di Campegine, in cui don Matteo Romani, per lunghi anni (1843-1878) parroco amato e venerato da tutti i campeginesi, in un fluente latino, annota, tra l’altro, ciò che ebbe modo di osservare in quel tragico mattino, prima e al termine della Messa solenne di Capodanno. (Testo di Giovanni Cagnolati)